Social sì, cretini no

#SocialSìCretiniNo

Se permettiamo limitazioni alle nostre libertà, ci avviciniamo sempre più ai regimi che i nostri nonni hanno combattuto, per la nostra libertà.

La libertà che abbiamo, ce la siamo presa.

L’immagine di sfondo è di David Revoy, www.davidrevoy.com CC BY 4.0

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SOCIAL SÌ, CRETINI NO

Il 29 ottobre 2019, per combattere l’odio online, il deputato Marattin propose di richiedere un documento d’identità all’iscrizione dei social. Al tempo la notizia fece scalpore, tanto che avvocati esperti in cybersicurezza come Giovanni Ziccardi dichiararono l’idea “una sparata inapplicabile”, che più che una proposta, pareva essere “una minaccia”. Ziccardi analizzò come il rifarsi a un documento d’identità ponesse tanti di quei problemi su più livelli (legislativi, politici, semantici) che il solo pensare a uno strumento simile risultava impraticabile: cos’è un social e cosa no? E se facessi la stessa cosa su un forum? A chi spetterebbe implementare una soluzione simile? Un social preferirebbe adattarsi a uno degli oltre duecento Stati in cui esercita o trovare scappatoie per evadere il sistema? Chi è in grado di gestire tutti i possibili rischi di sicurezza che una misura del genere creerebbe? E soprattutto, cosa risolverebbe davvero?

Quasi un anno e mezzo dopo, l’idea dell’identificazione torna a farsi spazio nel dibattito pubblico, questa volta senza suscitare grandi ondate di sdegno. Il motivo risiede nella morte di una ragazzina palermitana di dieci anni, che pare abbia perso la vita a causa di una sfida estrema che girava sul noto social per adolescenti TikTok. La sfida, chiamata blackout challenge, prevedeva di strozzarsi fino a svenire per qualche secondo, ma per la giovane ragazza non c’è stato più risveglio: l’asfissia, la corsa in ospedale, l’arresto cardiaco, e infine la morte cerebrale non le hanno lasciato scampo.

Agli occhi dell’opinione pubblica, il social, che fino a qualche giorno prima era lo spazio dove trovare e fare video divertenti, si tramuta ora in una macchina di morte. E dato che adesso fa paura, si è pensato di mettere in sicurezza le fasce più piccole. L’allora sottosegretaria alla salute Zampa, per esempio, suggerisce “l’obbligo di presentazione di un documento d’identità al momento dell’iscrizione su Facebook, Instagram o TikTok”, seguita a ruota dal senatore Cangini che dichiara di aver “già firmato una proposta di legge per prevedere l’obbligo di iscrizioni trasparenti”, e dal tecnologo Quintarelli che propone l’utilizzo di “una identificazione indiretta tramite token SPID o carta di credito”. Infine, l’ex ministra per l’innovazione tecnologica Pisano ha ammesso di lavorare da mesi a una soluzione pressoché identica. Riprendendo i quesiti di Ziccardi: cosa risolverebbe davvero?

Cosa ci insegna la storia

Iniziando da un caso analogo, nel 2016 il Regno Unito annunciò che stava lavorando a una legge che avrebbe impedito ai minori di accedere ai siti pornografici, tramite una verifica della loro età. Dopo aver sollevato critiche riguardo privacy, etica, fattibilità ed effettività del sistema, nel 2019 il governo ha ufficialmente rinunciato ai suoi sogni conservatori. Al contrario, un Paese come la Nuova Zelanda rispose con uno spot pubblicitario divertente, che puntava a sensibilizzare i giovani sul fatto che il sesso rappresentato nei video pornografici è un prodotto di fantasia. Due approcci diametralmente opposti: se da una parte c’è infatti un atteggiamento proibizionista, che può diventare terreno fertile per la censura, dall’altra c’è un tentativo costruttivo di introdurre alla sfera sessuale in modo che, alle loro prime esperienze, i giovani non risentano di idealizzazioni irrealistiche (la Nuova Zelanda ha un portale governativo dedicato sia ai genitori, sia ai figli, che tratta di pornografia come di bullismo, videogiochi e privacy).

Se si decidesse comunque di adottare una linea di autenticazione tramite la tecnologia, bisognerebbe prestare la massima attenzione a come la si decide di implementare: la Cina, per esempio, è la perfetta dimostrazione di cosa non fare, dove la vita online dei cittadini è strettamente legata alla loro identità online. Per combattere il problema molto sentito della mancanza di fiducia, la potenza mondiale ha optato per una trasparenza radicale, da sommare ai sistemi repressivi che già da decenni limitano le libertà personali di chi risiede in quello che è un regime de iure. Le telecamere per strada riconoscono chi è chi, applicazioni di messaggistica come WeChat sono connesse all’identità reale della persona, un sistema di punteggi valuta (anche) gli acquisti online dei singoli cittadini per eventualmente punirli o premiarli. Tutto ciò implica che, tramite mezzi di controllo continui per “il bene delle persone/del Paese”, un governo farebbe molta meno fatica a rintracciare chi desidera. E che seppur innocui in tempi di pace, una deriva autoritaria trasformerebbe questi strumenti in prigioni digitali senza scampo – come già da tempo succede proprio in Cina, nelle due regioni autonome del Tibet e dello Xinjiang.

Come aggirare senza fatica il controllo d’età

Si supponga ora che si riesca comunque a implementare un simile sistema e nel pieno rispetto degli individui (che è arduo da pensare considerando quello che è successo al portale dell’INPS l’anno scorso). Un lavoro tanto lungo e complesso può essere aggirato in tre modi senza la minima fatica.
In primis, dato che il tutto sarebbe attivo solo in Italia (o tutt’al più Europa), basta ingannare il social dicendogli che ci si sta connettendo da un altro Paese. E questo è fattibile comodamente da casa propria, usando una cosa chiamata VPN. Per chi non sapesse di cosa si sta parlando, quando ci si connette a un sito internet, il nostro indirizzo IP (ogni computer e smartphone ne ha uno) rivela, a grandi linee, la nostra area geografica. Quello che fa la VPN è farci prima connettere da lei (che magari risiede in Svizzera), che si connetterà per noi al sito desiderato, riceverà la pagina da caricare, e infine ce la riconsegnerà. In altre parole, è un ponte tra noi e l’internet: serve a nascondere la nostra vera provenienza (in questo caso il sito crederà che ci stiamo connettendo dalla Svizzera e quindi non ci chiederà di identificarci, come invece vorrebbe la legge italiana). Prima che si provi a demonizzarla, si ricordi che la VPN è uno strumento molto utile per chi – per esempio – vuole evadere la censura di Stati repressivi o in generale proteggere il suo anonimato (se sa cosa sta facendo). Se ora steste pensando che parliamo di tecnologia complicata non fruibile ai più, sareste in errore: ci sono migliaia di fornitori su internet, applicazioni sugli store, con costi che vanno da pochi euro al mese sino alla gratuità completa – quest’ultime fanno più danni che altro, ma comunque funzionano – e sono così alla portata di tutti che persino gli youtuber le sponsorizzano. Insomma: anche se voi non ne avete mai sentito parlare, per un adolescente è parte del suo quotidiano.

L’altro modo, ancora più banale, è il semplice chiedere. Se i genitori da anni cedono a richieste come comprare videogiochi che simulano teatri di guerra come Call of Duty per la pressione sociale che il bambino/ragazzino avrebbe nel rimanere isolato dai suoi amici, nonostante siano in teoria 18+, cosa esattamente dovrebbe fermarli dal dare loro il numero dello SPID (o della carta di credito) per farli stare sui social? O allungare loro il telefono? O al fare ingegnare l’adolescente nello sfilare il codice in questione senza che il genitore se ne renda conto? 

Infine, il terzo metodo consiste nel trovare un nuovo spazio. Il governo italiano inizierebbe ovviamente da spazi come TikTok, Facebook, Twitter, ma il fatto che questi siano i nomi più conosciuti, non vuol dire che siano gli unici nomi. Gli adolescenti non vogliono condividere gli spazi con i genitori e un esempio è Facebook che viene da tempo definito il “social dei vecchi”. Le nuove generazioni sono da tempi passate a Instagram, e da Instagram a TikTok, man mano che noi adulti invadiamo i loro spazi. Certo, un giorno il nuovo spazio farà troppo rumore e sarà normato anch’esso, ma questo non fermerà la generazione successiva a trovarne un altro o a essere creativi come nel caso delle VPN.

Cosa farà allora lo Stato? Tenterà di bandire migliaia di fornitori di VPN? Al posto dei social, che sono solo una fetta dell’internet, inizieranno a chiedere codici SPID su forum, community, e sui cellulari stessi? Minaccerà i genitori di sanzioni salate se allungano il telefono al figlio o alla figlia di 12 anni? Oppure tenterà di controllare direttamente la rete in una spirale distopica come la Grande Muraglia Digitale cinese e il certificato internet kazako? E a quale prezzo, esattamente, avrà deciso di mutare da democratico a regime in nome dei bambini?

Perché questa non è una soluzione

Si potrebbe parlare dei problemi dei social per mesi. Ne Il capitalismo della sorveglianza, la sociologa Shoshana Zuboff offre un’analisi completa, frutto di decenni di ricerche, dove dimostra come certi strumenti puntino a creare dipendenza, manipolare, rendere libero arbitrio e sfera privata obsoleti, ad accrescere l’indifferenza, e persino a minare le strutture democratiche per le quali l’umanità ha combattuto per secoli – pagando spesso e volentieri con la vita. Ed è proprio qui il problema: che non se ne parla. Inserendo questo sistema di autenticazione, il governo norma questi strumenti, facendo ricadere tutta la responsabilità sui genitori, che comunque non sono adeguatamente informati. Pensare che un codice preverrà dei morti è come pensare che aggiungere una posata in più risolverà la fame nel mondo: non c’entra nulla. Inoltre, se i genitori non ci vogliono finire in mezzo, non sarà difficile dire che ha fatto tutto il minore e che loro non ne sapevano niente, rendendo impossibile provare il contrario.

Per quanto riguarda l’autenticazione, è lo stesso sopracitato Quintarelli a spiegare in un’intervista qual è la vera funzione dello SPID in questa storia: prevenire che social come Facebook chiedano l’invio di documenti d’identità, lasciando allo SPID questo compito (che dirà al social solo se la persona è autorizzata o meno, senza dargli ulteriori informazioni). In altre parole, escluse le responsabilità al genitore, tutto ciò servirebbe esclusivamente per evitare che siti come Facebook e TikTok possano mettere mano a documenti sensibili. Prevenire che queste compagnie ottengano determinate informazioni è cosa buona e giusta, ma di nuovo, non si stanno tenendo in considerazione aspetti come la complessità, il costo e l’efficacia di tale sistema.

Conclusioni

Alla luce dei fatti qui elencati, le associazioni e gli individui che hanno preso parte a questa campagna sono dell’idea che si stia strumentalizzando la morte di una ragazzina, per varare una legge che con questa morte non ha nulla a che vedere e che a nulla servirà, se non ad accentuare l’ignoranza digitale dell’opinione pubblica. Politici di più schieramenti si stanno cimentando in proposte di legge prive di un’opportuna analisi di impatto e che, soprattutto, mettono in dubbio libertà fondamentali confondendo il piano dei diritti individuali con quello dell’ordinamento istituzionale. Un esempio è la proposta di legge del senatore Cangini, la quale asserisce che:  “L’anonimato  nell’espressione  del  pensiero  infatti  ha  ragione  di esistere  nei  regimi  illiberali,  non  certo  in uno  Stato  democratico”, come se democrazia equivalesse a trasparenza radicale, e l’anonimato fosse qualcosa di sbagliato – e non anche una forma di protezione. O ancora, l’allora sottosegretaria alla salute Zampa ritiene che “i ragazzi devono conoscere a memoria il codice penale in materia: bisogna istruirli, sapendo cosa rischiano se infrangono la legge, suggerendo metodiche incentrate sulla paura. Le stesse supportate da Cangini, che al posto della messa in discussione di mezzi che sono dimostrati essere dannosi su molteplici punti di vista, preferisce il terrore nei confronti di chi ci abita: “La proposta sarà di prevedere un’ora di educazione digitale nelle scuole per spiegare, già alle medie, i rischi dell’abuso del web”.

Quello che ci preoccupa, è che queste persone di web ne sappiano poco e niente, e che possano fare più danni che altro. Anzi, anche senza avere fatto concretamente niente il danno lo stanno già facendo: infatti, mentre sono impegnati a proporre applicazioni prive di logica, TikTok si è già ripromessa che “per identificare con ragionevole certezza gli utenti sotto i 13 anni […] la società si è impegnata a valutare ulteriormente l’uso di sistemi di intelligenza artificiale”. Questa affermazione, che a primo acchito veicola sicurezza, sta invece legittimando una compagnia che vive di profilazione dei propri utenti – bambini inclusi – a utilizzare mezzi più invasivi non meglio specificati. Se si tiene conto che TikTok è, in primo luogo, di una compagnia cinese; è stata trovata a censurare in alcuni paesi contenuti scomodi come omosessualità, Black Lives Matter e critiche politiche; ha rimosso temporaneamente gli utenti cinesi che parlavano cantonese piuttosto che mandarino; evitava che persone “brutte, obese e disabili” o con sfondi “decadenti” apparissero nei consigliati, è lampante concludere che la piattaforma è l’ultima azienda alla quale si vorrebbe affidare un controllo dell’età a scatola chiusa (e gli altri grandi social network non fanno comunque eccezione).

È ora quindi che lo Stato si faccia carico di trasmettere cultura e istruzione digitale e, se non è in grado di farlo, che inizi a dar spazio a chi di queste tematiche se ne occupa da tempo. Che si occupi di pagare queste persone, che si occupi di pagarci, perché di aria non si vive, e perché siamo stanchi di dover ogni volta correre ai ripari a causa dei danni fatti dal ministro di turno. È ora che si inizino a guardare con occhio critico piattaforme come i social più conosciuti non perché è morta una persona, bensì per tutti i motivi che Zuboff e molta altra letteratura scientifica hanno dimostrato nel corso degli anni. E che, sempre a proposito di social, si inizi a guardare verso quelli alternativi come Mastodon e PeerTube per analizzarne pregi e difetti. Che la scuola la smetta di ignorare il GDPR usando prodotti d’oltreoceano, finanziando invece chi – sempre non pagato – costruisce alternative etiche e funzionali che rendono l’Italia un Paese tecnologicamente indipendente, e – di conseguenza – politicamente più stabile. È ora che la si smetta di far paura con l’adottamento di soluzioni protettive, e che le cose le si inizi a spiegare. Perlomeno se non si vuole una popolazione in balia delle demonizzazioni di ciò che non conosce, in un presente che già si fatica a comprendere.

Questo è quello che serve davvero: il dialogo per comprendere, non le minacce per  salvaguardare l’ignoranza. Social sì, cretini no.

I CONSIGLI

Per lo Stato

  • Educare al digitale;
  • Riconoscere e ascoltare il terzo settore legato ai temi digitali;
  • Non normare il web senza considerare seriamente le conseguenze.

Per le famiglie

  • Evitare di lasciare i bambini soli su internet;
  • Non invadere eccessivamente gli spazi dei ragazzi.

CON IL SOSTEGNO DI

Dyne

Social sì, cretini no